La Tiroidite Cronica Autoimmune
– Presidente Fondatore S.I.Tri. –
– Direttore Scientifico del Giornale Italiano di Tricologia –
Introduzione
Nel 1912 Hashimoto descrisse i casi clinici di quattro donne nelle quali la tiroide appariva notevolmente ingrandita, istologicamente trasformata in tessuto linfoide, e diede a tale affezione il nome di “struma linfomatoso”. In queste pazienti non si riscontravano inizialmente segni di ipotiroidismo o altre alterazioni.
Solo dopo 40 anni si poterono rilevare, in analoghi pazienti con tale disordine, anticorpi antitiroide e attualmente si conosce la malattia, primariamente descritta da Hashimoto, come “tiroidite cronica autoimmune”.
Tale definizione non è comunque universalmente accettata.
Alcuni Autori suddividono la tiroidite autoimmune, da un punto di vista istopatologico, in due entità separate: tiroidite linfocitica se è presente il solo infiltrato linfocitario e tiroidite di Hashimoto se sono presenti oltre all’infiltrato anche l’atrofia, la fibrosi della ghiandola e le modificazioni eosinofile delle cellule tiroidee.
Anche clinicamente la tiroidite può essere caratterizzata dalla presenza di un voluminoso gozzo o di una tiroide atrofica ridotta di volume e di consistenza aumentata. Entrambe le forme comunque sono caratterizzate dalla presenza nel siero di autoanticorpi contro antigeni tiroidei e da vari gradi di disfunzione ormonale.
Epidemiologia ed evoluzione
La tiroidite autoimmune è una patologia relativamente frequente nella popolazione generale specie nelle aree geografiche a maggiore apporto iodico. Colpisce preferenzialmente (5/1) il sesso femminile e viene di solito diagnosticata tra i 30 e i 60 anni.
In uno studio autoptico condotto negli Stati Uniti ed in Inghilterra risulta che quasi il 45% delle donne ed il 20% degli uomini presenta vari gradi di tiroidite autoimmune: da 1 a 10 foci per cm2 di tiroidite nella forma lieve, più di 40 foci per cm2 per la forma severa e la prevalenza è del 5 – 15% nelle donne e del 1 – 5% negli uomini (tab. 1).
L’infiltrazione linfocitaria della tiroide è molto più frequente nelle donne bianche di età maggiore di 20 anni (41%) e meno comune nelle coetanee afroamericane (17%). In Italia la prevalenza degli anticorpi antitiroide nella popolazione generale varia dal 6% nelle donne di età inferiore ai 30 anni al 28% in quelle di età superiore ai 60 anni.
La presenza di anticorpi antitiroide e TSH elevato è fortemente predittiva di un successivo sviluppo di ipotiroidismo franco (tab. 2, tab. 3). Le implicazioni cliniche di tali evidenze epidemiologiche sono che la tiroidite autoimmune anche subclinica è la maggiore causa di ipotiroidismo nell’adulto.
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Femmine Maschi
Prevalenza anticorpi
antitiroide 6% (30 aa)
28% (60aa) 8,8%
presenza di tiroidite lieve 45% 20%
presenza di tiroidite severa 5 – 15% 1 – 5%
Tabella 1. Studio di Whickham: follow-up su popolazione di età fra i 38 e i 93 anni.
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Rischio per anno Rischio nei 20 anni successivi
TSH 6 U/mI
FPO Ab negativi 2,6% 35%
TSH 0,5-4,2U/ml
TPO Ab positivi 2,1% 27%
TSH 6 U/mI
TPO Ab positivi 4,3% 55%
Tabella 2. Rischio per lo sviluppo di ipotiroidismo nel sesso femmile.
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Patogenesi
Attivazione dei linfociti T
Il processo autoimmune inizierebbe con l’attivazione dei linfociti CD4 positivi o helper, linfociti T specifici per gli antigeni tiroidei.
Tali linfociti, tuttavia, non sono stati isolati nel tessuto con tiroidite autoimmune mentre si ritrovano comunemente nella tiroide colpita dal morbo di Graves.
Attualmente esistono due ipotesi sulla genesi della attivazione dei linfociti CD4.
Secondo alcuni autori una iniziale infezione causata da virus o batteri contenenti proteine simili alle proteine tiroidee determinerebbe l’attivazione di cloni di linfociti helper specifici per antigeni tiroidei che darebbero origine ad una cross-reazione. Infatti è stata ritrovata una certa “oligoclonalità” dei linfociti nel tessuto tiroideo di pazienti con tiroidite autoimmune come pure sono stati trovati nel siero di altri individui affetti, segni di recenti infezioni batteriche o virali e anticorpi contro retrovirus, ma l’ipotesi che un agente infettante precipiti la condizione di attivazione delle cellule T non è ancora del tutto accettata.
Un’ipotesi alternativa sostiene che le cellule tiroidee presentano alcune loro proteine intracellulari ai linfociti T helper. Questa possibilità à avvalorata dall’evidenza che cellule tiroidee di pazienti con tiroidite autoimmune, ma non cellule tiroidee di individui sani, esprimono sulla loro membrana il complesso maggiore di istocompatibilità (MCH) di classe II (HLA DR, DP, DQ) che è richiesto per la presentazione dell’antigene ai linfociti CD4. D’altra parte l’interferone gamma, rilasciato dai linfociti T attivati, sarebbe in grado di indurre l’espressione dell’MCH di classe II sulle cellule tiroidee che a loro volta stimolerebbero di nuovo i linfociti helper con perpetuazione del processo autoimmune.
Il meccanismo alla base della iniziale attivazione dei linfociti T in tale modello non è chiaro: in vivo potrebbe essere meno legato ad antigeni specifici di quanto non risulti dagli studi in vitro, comunque sembra che la stessa tiroide promuova l’espansione clonante di molte popolazioni di linfociti T anche con la produzione di altre sostanze necessarie alla risposta immune.
Comunque attivati, i linfociti T possono stimolare i linfociti CD4 alla produzione di anticorpi.
I tre antigeni target per la risposta immune sono: la tireoglobulina, proteina di deposito degli ormoni tiroidei, la perossidasi tiroidea, enzima limitante nella sintesi di T3 e T4 ed il recettore per il TSH.
Sono noti, inoltre, altri anticorpi diretti verso altri antigeni tiroidei ma ancora non sono stati ben caratterizzati.
Il ruolo principale nella distruzione del tessuto tiroideo è giocato senz’altro dall’azione citotossica diretta dei linfociti CD 8 killer reclutati dai linfociti CD4. Comunque, anche gli autoanticorpi potrebbero essere responsabili dell’ipotiroidismo: in vitro infatti, si è visto che gli anticorpi antiperossidasi inibiscono l’azione della perossidasi tiroidea, inoltre alcuni pazienti hanno anticorpi con attività citotossica in grado di attivare il complemento e causare la lisi delle cellule tiroidee.
Un contributo all’ipotiroidismo potrebbe inoltre derivare dagli anticorpi antirecettore per il TSH con azione bloccante. Tali immunoglobuline sono state ritrovate nel 10% dei pazienti con gozzo da tiroidite autoimmune e nel 20% di quelli con tiroidite autoimmune atrofica; comunque soltanto nel 49% di tali pazienti in trattamento con tiroxina, nei quali tali anticorpi scompaiono, si ripristina l’eutiroidismo, suggerendo che solo nel 5 – 10% dei casi le immunoglobuline antirecettore per il TSH causano l’ipotiroidismo nella tiroidite cronica autoimmune.
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TPO Ab (titolo) Sviluppo di ipotiroidismo
1:100 – 1:200 23%
1:490 – 1:800 33%
1:800 53%
Tabella 3. Sviluppo di ipotiroidismo nel sesso femminile nei successivi 20 anni in rapporto al titolo iniziale di TPO Ab.
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Fattori predisponenti
L’autoimmunità tiroidea è familiare. Infatti più del 50% dei parenti di primo grado di soggetti affetti da tiroidite cronica autoimmune presenta anticorpi antitiroide.
In alcuni studi su soggetti di razza bianca si è rilevato che l’aplotipo HLA-B8 DR3 risulta associato alla tiroidite atrofica autoimmune mentre l’HLA-DR5 alla forma con gozzo della stessa tiroidite, quasi a suggerire cause separate per le due affezioni. Ma in ogni caso tali aplotipi, più spesso ritrovati nei pazienti affetti, non forniscono dati consistentemente riproducibili.
L’alta prevalenza di tiroidite autoimmune nei pazienti con sindrome di Down e con malattia di Alzheimer ha focalizzato l’attenzione sul cromosoma 21, ma ancora altri disordini genetici sarebbero alla base della patologia autoimmune tiroidea perché anche nella sindrome di Turner il 50% delle pazienti è affetta da tiroidite.
Un ruolo importante nella genesi della tiroidite di Hashimoto è giocato dall’apporto iodico: la prevalenza è più alta nei paesi con maggiore apporto come gli Stati Uniti ed il Giappone (40) e in quelli con iodo-deficienza la supplementazione iodica aumenta del 40% la prevalenza di infiltrazione linfocitica della tiroide e gli autoanticorpi nel giro di 1 – 5 anni.
Inoltre, nelle aree con sufficiente apporto iodico la supplementazione di tale oligoelemento può indurre un ipotiroidismo transitorio e reversibile poiché viene inibita la biosintesi ed il rilascio dell’ormone e aumentata l’autoimmunità tiroidea.
La terapia con amiodarone, ad esempio, è una causa frequente di ipotiroidismo indotto da iodio, per la presenza di questo in percentuale del 35% nella molecola farmaceutica e per la lunga emivita.
Anche il litio può determinare un ipotiroidismo transitorio in 1/3 dei pazienti con o senza anticorpi antitiroide mediante un meccanismo diretto sul rilascio degli ormoni tiroidei. Anticorpi antitiroide possono ritrovarsi in numerose altre condizioni cliniche: pazienti affetti da cancro, malattie mieloproliferative, sindromi mielodisplastiche e particolarmente interessante è il caso dei pazienti affetti da epatite virale trattata con interferone alfa che nel 20% dei casi sviluppano anticorpi antitiroide e nel 5% vanno incontro ad ipotiroidismo.
Anatomia patologica
Il gozzo tipico della tiroidite autoimmune è caratterizzato da un diffuso infiltrato linfocitario con rari centri germinativi. I follicoli tiroidei sono ridotti di grandezza, contengono colloide dispersa e sono circondati da fibrosi.
Le singole cellule follicolari appaiono con ampio citoplasma roseo contenente granuli (trasformazione ossifila) e prendono il nome di cellule Askanazy.
Tipico della malattia è il basso rapporto tra cellule epiteliali e cellule linfoidi o linfociti nei vari stadi di differenziazione.
Quando è presente il solo infiltrato linfocitario la diagnosi di tiroidite cronica autoimmune può essere fatta con sicurezza solo se il paziente presenta elevati livelli sierici di anticorpi antitiroide.
Alcuni autori sostengono poi che la tiroidite cronica autoimmune in cui è prevalente l’atrofia possa essere una evoluzione istologica progressiva del gozzo tiroideo, come è emerso da alcuni studi in cui i pazienti venivano sottoposti a biopsie nell’arco di 20 anni.
Clinica
I pazienti affetti da tiroidite cronica autoimmune presentano clinicamente i segni di un ipotiroidismo con o senza gozzo. Tipicamente le donne sono molto più colpite degli uomini ed un’alta percentuale di queste presenta un gozzo. Solo il 9% circa dei soggetti sviluppa una tiroidite autoimmune prima dei 45 anni; dopo tale età l’incidenza aumenta notevolmente e il 51% delle diagnosi viene fatta fra i 45 ed i 64 anni.
Nella classica tiroidite di Hashimoto la tiroide risulta diffusamente ingrandita, di consistenza aumentata e con superficie irregolare. In più del 13% dei casi, particolarmente negli anziani, l’estrema fibrosi può esitare in un voluminoso gozzo che può essere confuso con una patologia maligna. Infatti in molti casi il peso della ghiandola può raggiungere i 350 grammi ma più spesso il valore normale è aumentato di 2 o 3 volte soltanto. Anche se voluminosa, raramente la tiroide determina compressione della trachea, dell’esofago e dei nervi laringei ricorrenti ma può comunque verificarsi, specie nella variante fibrosa, una rapida crescita che deve indirizzare i sospetti anche verso la possibilità di un carcinoma o di un linfoma.
La maggior parte dei pazienti non ha dolore ma riferisce comunque una sensazione di fastidio nella regione tiroidea.
Diagnosi
Diagnosi di laboratorio
Il sospetto clinico di tiroidite cronica autoimmune deve essere confermato dalla presenza di anticorpi antitiroide nel siero e dai valori del TSH.
In quasi il 60% dei pazienti affetti si ritrovano anticorpi antitireoglobulina e nel 95% anticorpi antiperossidasi associati al dato clinico di gozzo e segni di ipotiroidismo. Il titolo anticorpale, inoltre, tende ad essere più elevato nelle forme di tiroidite atrofica autoimmune che in quelle con gozzo.
Bassi titoli di anticorpi antitiroide possono ritrovarsi anche nel siero di pazienti affetti da altre patologie tiroidee ma l’alta positività degli anticorpi antiperossidasi offre praticamente la certezza che si tratti di tiroidite autoimmune.
Nella maggior parte degli studi si è visto che circa il 50 – 75% dei soggetti con positività agli anticorpi sono eutiroidei, ma il 25 – 50% presenta i segni di un ipotiroidismo subclinico e una buona percentuale (dal 5 al 10%) ha un ipotiroidismo manifesto che necessita di trattamento farmacologico.
Altri segni di laboratorio che possono trovarsi nei soggetti affetti sono la VES elevata, un’ipergammaglobulinemia policlonale, una gammopatia monoclonale ed anche anticorpi antinucleo.
Diagnosi strumentali
Le indagini strumentali non sono di estrema necessità nella diagnosi di tiroidite cronica autoimmune e in genere vengono eseguite per lo studio di un gozzo.
-> Ecografia tiroidea
L’ecografia tiroidea conferma la diagnosi già fatta con le indagini di laboratorio. Gli aspetti ecografici comunemente ritrovati nelle tiroiditi sono quelli di un’aspecifica ipoecogenicità e disomogeneità del parenchima ghiandolare, un ingrandimento diffuso in caso di gozzo e una riduzione del volume tiroideo nelle forme atrofiche.
-> Scintigrafia tiroidea
L’esame scintigrafico e la captazione possono indurre in errore poiché possono aversi dei quadri simili a quelli ritrovati nel morbo di Graves, nel gozzo multinodulare e nel nodulo autonomo.
La captazione del radionuclide è caratteristicamente normale o elevata nei pazienti con tiroidite autoimmune con gozzo, persino in presenza di ipotiroidismo, mentre nelle tiroiditi subacute o silenti la captazione è bassa.
-> Agoaspirato citologico
L’agoaspirato è indicato nei casi in cui all’esame clinico e all’ecografia ci sia il sospetto di carcinoma perché alcuni reperti citologici come la presenza di strutture papillari potrebbero essere falsamente interpretati come carcinoma papiIlifero e venire inviati quindi alla chirurgia.
Alcune difficoltà possono insorgere nel porre la diagnosi differenziale fra tiroidite e linfoma ad alto grado. La presenza di linfociti monomorfi può infatti far pensare ad un linfoma ma appropriati studi di immunoistochimica per valutare la natura clonale dell’infiltrato, biopsie con aghi meno sottili e addirittura biopsie a cielo aperto possono poi dirimere ogni dubbio.
Terapia
Poiché i pazienti con tiroidite cronica autoimmune sviluppano spesso un ipotiroidismo, subclinico o conclamato, la terapia deve mirare essenzialmente alla correzione di quest’ultimo.
Tutti i soggetti affetti vengono generalmente trattati con L-Tiroxina il cui dosaggio va aggiustato monitorando i valori del TSH fino a ristabilirli entro il range della normalità, talvolta vengono utilizzati farmaci immunosoppressivi ed è consigliabile l’uso dei corticosteroidi.
-> La terapia con L-tiroxina si accompagna alla normalizzazione del TSH ed alla riduzione del gozzo e del titolo anticorpale.
La dose del farmaco va stabilita a seconda dell’età del paziente, del peso corporeo ed in base alla presenza di alcune controindicazioni relative. Infatti nei pazienti anziani e nei cardiopatici il trattamento va iniziato ed aumentato lentamente per evitare la slatentizzazione o la riacutizzazione di una cardiopatia ischemica.
La maggior parte degli autori ritiene che ci siano comunque e sempre molte buone motivazioni a favore del trattamento dei pazienti con ipotiroidismo subclinico:
1) l’aumento del TRH e TSH (con o senza anticorpi antitiroide) è un fattore di rischio per lo sviluppo di un franco ipotiroidismo,
2) la sintomatologia di un lieve ipotiroidismo migliora nel 50% dei pazienti trattati con L-T4,
3) il metabolismo lipidico, quasi sempre alterato, viene migliorato,
4) la contrattilità cardiaca, ridotta nell’ipotiroidismo subclinico, si normalizza con la terapia,
5) il 25% dei pazienti sono più attivi mentalmente,
6) i livelli di FT4 anche se normali potrebbero non essere sufficienti per quel particolare individuo (Tab. 4).
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dose sostitutiva completa
– Adulti 1.6 pg/Kg (P.I.)
– Anziani 1.3 pg/Kg
Dosaggio della L-T4 nella terapia dell’ipotiroidismo.
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Per stabilire un dosaggio ottimale di L-T4 è utile basarsi sui livelli di TSH pre-terapia e quindi nel caso dell’ipotiroidismo subclinico le dosi saranno minori rispetto all’ipotiroidismo franco. Il dosaggio dell’fT4 può essere utile all’inizio della terapia perché questo aumenta ancor prima che il TSH si normalizzi e poi, nelle fasi successive, è indice della compliance del paziente al trattamento.
-> La terapia immunosoppressiva con boli di medrossiprogesterone è molto usata sia per ridurre le dimensioni di un grosso gozzo sia per ridurre il titolo di autoanticorpi causa della tiroidite stessa. Durante il trattamento immunosoppressivo va monitorato il TSH e l’fT4 per escludere un sovradosaggio.
-> La chirurgia subtotale della tiroide si impone qualora vi sia un gozzo comprimente le strutture circostanti o qualora si sospetti lo sviluppo di una neoplasia.
BIBLIOGRAFIA
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Mc Gregor A.M.: “Immunology of Endocrine Diseases” MTP Press, Lancaster, 1986.
Toft A.D.: “Hyperthyroidism” “Clinics in Endocrinology and Metabolism” 1985, 14, (2).